Quattro calci all’artista con Maradona

marta arniani | Gennaio, 2013 | them


“Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli,

perché loro sono come ero io a Buenos Aires”
Maradona, 5 luglio 1984, presentazione
ufficiale allo stadio San Paolo di Napoli

 

Sogni di rivincita, lotta di classe, campetti di periferia, cadute di stile, vittorie: Diego Armando Maradona non è certo un personaggio lineare. O sei con lui, o sei contro. Paolo Castaldi ha pubblicato con Becco Giallo un graphic novel sul grande calciatore. Teo Manzo e il suo gruppo La linea del Pane gli hanno dedicato una canzone, “Bisogno di una notte di mezza estate” uscita insieme al libro. Abbiamo fatto due chiacchiere con il cantautore e il “cartautore”, per capire dove sta l’ispirazione e perché servono più artisti alla Maradona e meno artisti prodotti in serie.

 

Paolo, Pensi prima in bianco e nero o a colori? Dove sta l’idea, l’essenzialità?

 

P: Di sicuro a colori, nasco a colori e divento in bianco e nero all’occorrenza. L’essenzialità la trovi in un sacco di altre cose, ma non nella scelta del colore da usare, almeno per me. La trovo nel segno, nel soggetto, in come lo rappresento… a volte il bianco e nero nel disegno limita perché non avendo a disposizione il colore bisogna spiegare qualcosa in più, invece col colore puoi evitare dei passaggi.

 

Teo, possiamo dire che nel fare il cantautore c’è un “bianco e nero eterno”, non circostanziato al “colore di un’epoca”? 

 

T. Sì, nel senso che la linea temporale in una canzone non deve esistere:  la buona canzone è fuori dalla linea diacronica del tempo, così stratificata che può acquistare senso in ogni momento. Per come le scrivo io mi piace mantenere forte dimensione narrativa, una terza persona molto forte, una cosa che è quasi caduta in disuso. In questo senso invece le canzoni sono molto forti, molto a colori, molto narrative e molto poco liriche.

P. Ora si ha paura di narrare delle cose, si ha la paura di sembrare – nel migliore dei casi – antiquati. Si cerca una “modernità” che non è tale, è semplicemente un adattarsi a una corrente contemporanea che non avrà senso tra dieci anni. Quando un’opera può vivere solo all’interno della sua epoca storica non ha potenza.

 

E voi a chi parlate?

 

T. Il libro di Paolo è spudorato nei confronti del pubblico. Lo è perché divide, e già questo gli dà una rilevanza. La differenza tra un artista e un intrattenitore è che il secondo ammicca al pubblico e segue un gusto che già c’è. Adesso il gusto è poco sotto la mediocrità: vuoi essere tu la tua opera d’arte, usi la tua opera per arrivare TU a un pubblico… è un equivoco incredibile.

Deve parlare ciò che sto facendo, non io. Se vuoi creare un gusto, e ci vuole molta presunzione (il confine con l’arroganza è labile),  è così che arrivi a fare qualcosa. Oggi la cosa migliore da fare sarebbe seguire il dissenso di tutti, più che il consenso.

 

P. Io non credo al “genio incompreso” però. Se non piaci a nessuno, un motivo c’è. Sono convinto che quando cerchi di creare un gusto, ce la fai. Non ce la fai se non hai talento, ma lì non eccelli neanche se cerchi di adeguarti a un gusto corrente. Per farlo però bisogna metterci la faccia, avere la voglia e la pazienza di farlo… E non avere paura di sembrare presuntuosi. Per me ha funzionato così con Maradona. Gli editori mi hanno chiesto più volte se ero sicuro del taglio che stavo dando, anche se loro da editori coraggiosi sotto sotto si esaltavano: “A noi piace, ma qui, dove lo fai parlare con Dio che è un contadino… A noi va bene ma: sei sicuro?”.

Fare arte sta diventando troppo un mestiere, non si sperimenta, non si torna all’essenzialità, al come si fanno le cose… I motivi si sono persi. Il musicista che vuole fare musica per fare il musicista è un dramma. Come non si scrive per pubblicare un libro. Non significa niente. Se vuoi successo e soldi vai a fare il venditore. L’egocentrismo va bene, ma utilizzalo nella tua opera, non su te stesso.

 

Tutte le volte che ceselli un personaggio ci fai a botte. Com’è stato l’incontro/scontro con Maradona?

 

P. Beh se fai una cosa su Maradona non puoi che essere ardito per rispettarlo. Ha talmente diviso l’opinione pubblica che se stai nel mezzo anche tu rischi di fare un libro democristiano che non si sa dove vuole andare a parare.

Le mie opere nascono da spunti molto semplici. In questo caso ero sicuro che a mia nonna avrebbe fatto piacere, è tifosa del Napoli e segue ancora l’andamento delle partite col televideo. Così quando l’editore l’ha proposto mi sono subito fatto avanti. Gasato dal “lo faccio vedere a mia nonna” ho rimosso per un sacco di tempo il pensiero che sarebbe potuto finire su uno scaffale della Feltrinelli. O recensito da Repubblica e Corriere, come poi è successo. Quando scrivevo pensavo a mia nonna, alle mie origini napoletane e cosa ha significato per la città di Napoli. Mi ha dato l’occasione di spiegare – in primis a me stesso – perché a Napoli c’è il culto di Maradona, l’altra faccia dell’evasore fiscale, il personaggio affascinante. Un po’ come ha fatto Kusturica nel suo documentario [“Maradona”, 2008].

 

T. Più che con Maradona hai fatto a pugni col pubblico che poteva contestarlo.

 

Paolo.  Sì, volevo aizzare la folla. Far vedere Maradona che parla con Dio è una soddisfazione impareggiabile.

 

Più che farci a botte dunque hai solidarizzato.

 

P. Sì sono assolutamente di parte. È un libro PER Maradona. Ho fatto a botte con un modo di pensare bigotto. Il libro nasconde altre cose, denuncia un modo di essere e pensare. Quando pubblichi con Becco Giallo puoi permettertelo. E comunque mi piace rompere le palle. Far capire che non sono così addormentato come sembro.

 

T. Il libro di Paolo è eccezionale perché è stratificato… Ci trovo sua nonna, la passione per il calcio di mio padre, me stesso da bambino che disegno scene di partite, i fattori sociali – perché Maradona è un personaggio sociale, un simbolo di riscatto popolare. Io non ho toccato questi argomenti, non volevo fare i sottotitoli a quel che ha già fatto Paolo. Io ho letto Maradona come un artista, in quel ruolo lì. La canzone ha due ritornelli, il primo è per Maradona, il secondo per Paolo che scrive di Maradona, prendendolo in giro “comprati da bere Gaugin, questo non è un posto per te”, e non perché Maradona e Paolo non siano degli artisti, ma perché manca la cultura intorno. Sono contento di aver scritto una cosa che si può leggere in molti modi. È un po’ come la scena della lettera in “Non ci resta che piangere”, che è tutta improvvisata. Un sentimento ineffabile sta dietro a tutto, e tu ti devi ingegnare per esprimere un mondo senza essere banale.

 

… Mentre è molto diffusa l’idea di comunicare un messaggio già digerito, come se lo spettatore fosse idiota.

 

T. Io ho un motto: l’importante è essere chiari senza essere espliciti. Essere lampanti, illuminanti, senza essere espliciti. In poesia e scrittura è più facile che nel fumetto, ma la chiave di mistero è questa. Non è per tenere la suspense, ti spiego che c’è un mistero, non il mistero. Banalizzare e dire sempre tutto è una cosa che c’era già nella TV italiana negli anni Cinquanta. È un concetto vecchissimo. Lì almeno era pedagogico.

E poi c’è l’altro lato della medaglia, perché dietro la scusa dell’interpretazione si nascondono dei cialtroni: non è che se fai una cosa ermetica assurgi a grande intellettuale. Dietro questa vaghezza passano tutti, anche chi non ha niente da dire. Essere ermetici e spiegare l’acqua calda ai bambini sono i due poli di un problema immenso.

 

P.  Infatti questa è la paura di narrare: quando narri ti metti a nudo, o lo fai o non lo fai. La via di mezzo non esiste. Invece si fa pensare al pubblico che è lui a non essere in grado di capire.

 

Quanto credete nell’essere nazionalpopolari, nel senso buono del termine?

 

P. Bisogna essere nazionalpopopolari! Anche nei fumetti c’è una certa ricercatezza, voli pindarici di chi non sa disegnare, non a livello accademico, solo non è capace di esprimere. Questa cosa mi imbufalisce e sto cercando ogni volta di cambiare dei dettagli, aggiornarmi, anche se il mio stile è abbastanza riconoscibile… Vorrei sbattere in faccia che a me bastano una matita e un foglio, perché il fumetto in fondo è dell’immagine con delle scritte. Nikolai Maslov, un fumettista russo, disegnava in Siberia mentre si spaccava la schiena nei campi, su semplici fogli e una matita. Maslov aveva qualcosa da dire e nonostante la scarsità di mezzi i suoi fumetti spaccano. Se non hai niente da dire nel fumetto hai due vie di fuga, il disegno ermetico o il testo ermetico… quando poi li unisci è l’apoteosi della cazzata.

 

T. Per fare l’ermetismo ci vuole la reputazione. Uno come Giorgio Gaber poteva fare come ultimo disco una cosa ermetica o un po’ psichedelica, non l’ultimo cialtrone. Comunque l’unica cosa che salva è un po’ di libertà. Io credo che Paolo ne sia fornito, i suoi lavori sono molto connotati.

 

P. Adesso se dico lo stesso per te sembra una paraculata. Nelle tue registrazioni voce e chitarra c’era tutto. Io non amo il tecnicismo, perché trovo sia un modo per nascondere e nascondersi. Mentre ci sono fumettisti che sono dei Caravaggio, ma non hanno niente da dire. Ammaliano lo spettatore.

 

Fatevi un augurio. 

 

T. Io voglio che qualcuno mi dia 5.000 euro per La linea del pane. Per riconoscenza a un lavoro che finiremo tra poco. Ci servono dei soldi per finirlo.

 

P. Finalmente si parla un po’ di soldi!

Mi auguro di trovare il bandolo della matassa del prossimo libro, in cui finirà tutto il discorso di oggi. E di continuare a essere spregiudicato.

A La linea del pane auguro di fare il disco. E di venire da me quando sarò ricco perché voglio fare il loro produttore.

 

T. Io ti auguro di essere ricco allora. E di riuscire a pubblicare in Francia come sogni.

 

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