Cannabis e cassazione

Pablito El Drito | Giugno, 2020 | them


Pablito el Drito, scrittore e militante antiproibizionista, intervista Alberto Aimi, ricercatore di diritto penale presso l’Università degli Studi di Brescia. Il 30 gennaio 2020 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno deciso di una questione che era diventata controversa nonostante fosse già stata decisa nel 2012. Nello specifico si tratta della quantità oltre la quale il traffico di sostanze di tipo leggero (cannabis) realizza o meno l’aggravante dell’ingente quantità, che è una questione molto importante dal punto di vista pratico perché, ai sensi dell’art. 73 co. 4 del t.u.stup. la pena prevista per il traffico di sostanze leggere è da 2 a 6 anni di carcere. Ma l’aggravante comporta un aumento dalla metà ai due terzi della pena, quindi particolarmente rilevante, perché con una pena da 2 a 6 anni è possibile che si aprano le porte del carcere, ma in tutta una serie di casi questa cornice porta all’applicazione di misure alternative alla detenzione o alla sospensione condizionale della pena, che significa che dal carcere non passi. Quindi, contestare l’aggravante dell’ingente quantità cambia significativamente le conseguenze per il dealer. In questa sentenza si dice che l’aggravante dell’ingente quantità si può applicare soltanto quando la quantità di principio attivo è superiore ai due chilogrammi.

D: Due chili di principio attivo, considerando che le qualità di fumo-erba in commercio hanno una concentrazione di thc compresa tra il 10 e il 20%, corrispondono a 10-20 kg di cannabis.
Questo cosa implica per magistrati e forze dell’ordine ?

R: La sentenza potrebbe essere letta come un’indicazione alle forse dell’ordine di concentrarsi sul contrastare traffici più rilevanti. Bisogna tenere presente che ogni procedimento ha un costo per lo Stato. Significa impegnare poliziotti, magistrati, scrivere carte. Questa macchina ha un senso se la si muove per ottenere una carcerazione. Se le pene sono basse e la persona in definitiva non va in carcere, ma ottiene, ad esempio, un affidamento in prova, impegnare dieci giudici e poliziotti può essere percepito non dico come una perdita di tempo, ma almeno come uno spreco di risorse. Per cui si può ipotizzare che le Procure siano da ora più orientate a lavorare su sequestri che riguardano quantità sopra i dieci-venti chilogrammi. Quindi non di cuscini d’erba, ma di mezzi bancali di stupefacente.

D: Può anche significare che la magistratura dica di concentrarsi su altri tipi di sostanze, come le droghe pesanti. Anche perché è da queste sostanze che provengono i grandi profitti delle organizzazioni criminali.

R: Bisogna fare attenzione. È vero che, senza contestare l’aggravante, se una persona non ha precedenti può diventare più difficile ottenere una custodia cautelare in carcere; ma è anche vero che spesso, nella prassi, a fronte di quantità modeste di cannabis la carcerazione preventiva viene comunque disposta. Non bisogna infatti dimenticare che la pena per il traffico di droghe leggere rimane molto alta anche senza aggravante (si può arrivare fino a sei anni di reclusione) e, dunque, può sempre implicare un passaggio per un istituto carcerario. La decisione avrà però certamente delle ricadute sui sequestri di piccola entità. Per esempio, se prima le forze dell’ordine eseguendo una perquisizione trovavano 5 chili di erba il traffico poteva essere considerato di ingente quantità e la pena poteva arrivare anche ai dieci anni di reclusione. Dopo questa pronuncia questo non potrà più accadere. Ci si auspica insomma che la limitazione dell’ambito di applicabilità della circostanza dell’ingente quantità, ad opera delle Sezioni unite, induca le Procure a concentrarsi su fattispecie ben più significative.

D: Le Sezioni unite in riferimento ad un episodio di coltivazione domestica si erano già pronunciate per l’assoluzione di un imputato, giusto?

R: Si, dissero che la coltivazione per uso personale non è più penalmente rilevante. La decisione è dal 19 dicembre 2019 ed è senza dubbio una decisione importante.

D: La sentenza diceva che siccome le finalità di consumo personale erano accertate, in pratica visto che non era dimostrata la cessione della sostanza, e poiché la coltivazione era artigianale, c’era stata l’assoluzione.

R: Il quadro normativo prevede che la detenzione per uso personale sia punita come un illecito amministrativo ai sensi dell’art. 75 del testo unico sugli stupefacenti. Il problema, però, era la coltivazione: non esisteva un illecito amministrativo che sanzionasse la coltivazione per uso personale. Per cui ogni genere di coltivazione era considerata reato, a prescindere dalla quantità di piantine in concreto sequestrata e alla loro destinazione. Ne risultava un enorme paradosso: in caso di sequestro di una piantina di cannabis si apriva un procedimento penale per il delitto di traffico di sostanze stupefacenti (art. 73 co. 4 o 5 t.u.stup.). Se, invece, veniva sequestrato il raccolto della stessa pianta, destinato ad uso esclusivamente personale, al coltivatore domestico veniva contestato soltanto un illecito amministrativo. Per fortuna, dopo un lunghissimo dibattito giurisprudenziale, le Sezioni unite hanno capito che non aveva molto senso punire in maniera differente la stessa persona se colta due mesi prima, con la pianticella, o due mesi dopo, quando la sostanza era già stata raccolta e essicata. Queste due situazioni vengono ora, per così dire, parificate, nel senso che verranno considerate entrambe penalmente irrilevanti. La coltivazione artigianale per uso personale, cioè di una modesta quantità di piantine, in assenza di dispositivi che fanno pensare a una produzione destinata al traffico, diventa una condotta penalmente lecita. Mi pare un enorme passo in avanti.

D: Ma il legislatore, quindi il parlamento, dovrebbe prendere atto di quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e cambiare la normativa o sbaglio?

R: Sono assolutamente d’accordo. Mi sembra che nelle sentenze che abbiamo raccontato si possa leggere una sorta di presa di coscienza, da parte delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, del fatto che certe condotte sono così diffuse sul piano sociale e così poco prive di disvalore da non meritare una risposta sanzionatoria così dura come quella che sarebbe applicabile dando un’interpretazione rigorosa delle norme contenute nel testo unico. L’esigenza di una complessiva revisione della disciplina degli stupefacenti, peraltro, è già nota da anni. Basti pensare alle tabelle allegate al testo unico che indicano la quantità di principio attivo oltre la quale diventa molto più facile dimostrare che la detenzione di una sostanza non è finalizzata ad uso esclusivamente personale. Le quantità indicate sono chiaramente da rivedere. Ad esempio, fino a prova contraria, si considera destinata ad uso personale la detenzione di una quantità pari o inferiore a 0,9 grammi di ketamina, mentre per il THC – il principio attivo della cannabis – la quantità sotto la quale si “presume” l’uso personale è 0,5 grammi!

D: Detto questo ho l’impressione che l’apparato, in sostanza proibizionista, della legge sopravviva.

R: Certamente. La giurisprudenza può arrivare soltanto fino ad un certo punto. Deve interpretare delle leggi che rimangono proibizioniste. Ma si potrebbe intervenire in altri modi. Il parlamento dovrebbe rivedere la normativa nel suo complesso. Ma potrebbe intervenire anche il Ministero della Salute. È questo Ministero che con decreto fissa i limiti oltre i quali non si “presume” più che la detenzione sia destinata ad un uso personale. Nel 2006 il Ministro tentò di aumentare questi limiti per la cannabis, ma il decreto fu annullato dal TAR del Lazio per difetto di motivazione. Un Ministro della salute un po’ più illuminato potrebbe agire in questo senso, adducendo più elaborate ragioni di carattere scientifico, suffragate dal parere di tossicologi o medici, in modo da confezionare un atto giuridicamente “inattaccabile”.

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