Street Art e Writing, Bologna detta la linea dello stile

marta arniani | Agosto, 2012 | them


Frontier – la linea dello stile è un progetto promosso dalla città di Bologna per valorizzare le discipline della Street Art e del Writing. Concepito come una piattaforma aperta, si sviluppa in due fasi: la prima vede la realizzazione di tredici opere murali di dimensione monumentale all’interno della città, la seconda è un convegno di riflessione critica sullo stato delle due discipline che si terrà al MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna) a gennaio 2013. Gli autori delle opere sono 5 artisti stranieri e 8 italiani, scelti per rappresentare la scena “dall’esplosione del segno in 3D di Daim, Joys, Dado, all’importanza di un segno gestito attraverso un uso sapiente del colore e la padronanza della composizione come nel caso di Honet, Does, Hitnes, Eron, alla rinnovata presenza di una figurazione stilizzata scelta in funzione di precisi messaggi, come nel caso di M-City, Andreco, Cuoghi Corsello”. La Bologna di oggi rende così omaggio a quella così lontana e così vicina del 1984, anno della pionieristica mostra Arte di Frontiera. New York Graffiti, che portò in Italia Jean-Michel Basquiat, Keith Haring e Kenny Scharf. Per capire cosa possono dare Bologna e l’Italia alle due discipline abbiamo intervistato Fabiola Naldi e Claudio Musso, i due curatori di Frontier.

Ormai avete superato il giro di boa della parte “esecutiva”: vogliamo fare un primo bilancio? Come reagisce la città?

Data l’impostazione aperta ci sono diversi piani di lettura e ricezione di questo progetto. Il pubblico interessato all’arte contemporanea sembra dimostrare un gradimento diffuso, in particolare è piaciuta l’intenzione curatoriale, ovvero il fatto che questa volta ci siano degli storici dell’arte e non degli artisti a coordinare le scelte. Per quanto riguarda le Istituzioni, Comune, Regione, MAMbo, Urban Center e Acer [Azienda Casa Emilia-Romagna della Provincia di Bologna] il clima è di entusiasmo, in molti chiedono già di poter ripetere l’esperienza: hanno proposto di aumentare il numero di muri utilizzati, tra le idee si è fatta avanti anche quella di utilizzare una nuova edizione di Frontier come pretesto per creare una mappa degli interventi di Street Art nella città, andando anche a ritroso nel tempo e considerando anche opere che non esistono più. I cittadini invece sono divisi tra trasporto e menefreghismo. Una delle cose più difficili per noi è stato rispondere a un grande fraintendimento: molte persone per strada ci hanno chiesto perché non “usiamo” soldi pubblici per altri contesti e interventi più utili. Ciò che spesso viene frainteso è la provenienza dei fondi, il loro stanziamento, la quantità di quelli pubblici e le direzioni politiche che indirizzano i capitoli di bilancio.
D’altro canto l’idea che i cantieri di realizzazione delle opere si svolgessero a cielo aperto, in zone di grande visibilità, ci ha aiutati a scardinare un pregiudizio classico sul writer e sullo street artist, quello che lo vede come un clandestino che agisce di notte e imbratta i muri. Così invece siamo riusciti a limare questa visione e a far capire che quello dell’artista è un lavoro: si è creata una forma di rispetto da parte del pubblico perché gli artisti hanno dato molto, sia come impegno che come impatto estetico.

Come avete scelto i quartieri e i muri? In che modo Frontier è stato preparato con i cittadini e quanto si è lavorato per far sì che non fosse una scelta “calata dall’alto”?

Prima che iniziasse Frontier sono state fatte 13 riunioni con i condomini dei palazzi inclusi nel progetto, e noi stessi ogni giorno abbiamo presenziato tutti i cantieri per controllare la situazione e rispondere alle esigenze della popolazione. Anche procedendo a ritroso e ricordando come si è sviluppata la parte organizzativa, il contatto con le istituzioni e i rapporti con la popolazione sono sempre stati al primo posto. Siamo stati contattati lo scorso ottobre, a dicembre parlavano con i presidenti dei 4 quartieri, poi abbiamo presentato all’Acer la selezione di muri. Da qui abbiamo contattato i condomini, mentre altre realtà hanno preparato il terreno: l’Urban Center ha organizzato percorsi di trekking urbano, Bologna Estate ci ha inserito in un calendario di eventi culturali per la città, mentre in futuro il Dipartimento educativo del MAMbo realizzerà dei laboratori sul progetto rivolti agli abitanti dei condomini. Non possiamo parlare di una partecipazione reale perché alla base esiste un progetto curatoriale con una forte componente autoriale e con grande libertà espressiva per gli artisti, proprio come fosse una mostra all’aperto. A parte ciò abbiamo fatto e stiamo facendo tutto il possibile perché gli abitanti dei quartieri comprendano il progetto e si sentano orgogliosi e partecipi del risultato.

Quale percorso avete affrontato nel legarvi alla storia della città e alla mostra del 1984? C’è stato uno scambio intergenerazionale?
Dopo la laurea in storia dell’arte il nostro percorso di formazione accademica si inserisce in una “scuola” che è la stessa in cui si era formata Francesca Alinovi, l’ideatrice della mostra del 1984: all’università di Bologna i professori erano gli stessi di quando lei la frequentava, proviamo una comunanza metodologica e condividiamo la sua linea militante.
Siamo partiti dalla mostra Arte di frontiera. New York Graffiti: l’idea che un’istituzione museale civica ospitasse una mostra d’avanguardia è la perfetta rappresentazione di un clima culturale. Con il MAMbo in forme diverse abbiamo avuto accesso agli archivi nei quali abbiamo ritrovato le testimonianze e i documenti di un periodo di fermento culturale per la città che interessava l’arte visiva come la musica e la letteratura.
Negli ultimi anni, purtroppo, molte delle realtà di eccellenza nel panorama del Writing e della Street Art non sono riconosciute dalla città, e molti artisti (pensate solo a Blu) hanno avuto più successo e riconoscimento all’estero, ma la possibilità di fare rete è ancora molto presente e Frontier intende ridare a Bologna il ruolo di centro di produzione e riflessione.

Come si inserisce Frontier nel panorama italiano?

L’Italia in realtà è molto ricca di festival o appuntamenti dedicati al writing e alla street art: PicTurin a Torino, Icone a Modena, Fame Festival e Grottaglie, Muralia a Benevento tra gli altri. Quello che contraddistingue Frontier da queste realtà è che noi abbiamo impostato il lavoro secondo la nostra professionalità, e dunque non da artisti, ma da storici dell’arte. Vorremmo che il nostro fosse un contributo all’istituzionalizzazione e riconoscimento della disciplina. Gli organizzatori di questi festival ci hanno molto incoraggiato e ci hanno chiesto informazioni e contatti per fare rete. Un ricercatore italiano molto bravo, Christian Omodeo, che vive da tempo in Francia, ha citato il nostro progetto in un articolo in cui si chiede se l’Italia possa diventare la nuova mecca della Street Art. Non è l’opinione di un singolo, ma un sentire comune. Secondo gli artisti non esiste al momento in Europa un’altra nazione con altrettanti festival dedicati all’argomento: se il settore culturale investisse su questa forma d’arte si riuscirebbe a creare un sistema forte e sostenere una scena molto variegata. Potrebbe diventare un motivo d’attrazione e richiamo: banalmente gli esercenti dei negozi e dei bar nei paraggi dei cantieri hanno avuto un forte ritorno economico dalla presenza di Frontier. Dunque possiamo dire che la street art in Italia gode di ottima salute, le istituzioni culturali un po’ meno.

Qual è lo stadio della curatela nei campi della street art e del writing? Si fa ancora fatica a legittimarli dal punto di vista scientifico?

Dal quando è scoppiata la “bolla” intorno alla Street Art a livello planetario con Obey, Banksy e tutti gli artisti di cui oggi si fa un gran parlare, molti critici e curatori si sono interessati a queste forma d’arte, ciò non significa che ci sia un reale interesse o che gli studi vengano condotti a livello scientifico…
Per molti è dunque una questione tangente, oppure come nel caso degli artisti ci si è trovati con i piedi in due scarpe, rappresentare se stessi, selezionare ed essere messi in mostra al contempo. Dagli albori della disciplina ad oggi non ci sono molti testi teorici sull’argomento: i capostipiti sono Jean Baudrillard con “Per una critica dell’economia politica del segno” (1974) e Norman Mailer con “The Faith of Graffiti” (1973). Gran parte delle pubblicazioni che seguono fino agli anni Novanta sono interessanti da un punto di vista iconografico o come documentazione storica di mostre ed eventi, ma in generale viene lasciato poco spazio per la riflessione critica. Con l’avvento del Web le pubblicazioni si sono ulteriormente diradate, e gli stessi utenti hanno creato dei circuiti d’interesse.
Noi da tempo ci occupiamo, anche a livello accademico, dei fenomeni artistici legati alla strada. Fabiola Naldi nel 2007 ha scritto un saggio sulla storia del Writing a Bologna (La mia strada continua e vive oggi più di prima. Il Writing a Bologna dalla fine degli anni Settanta ad oggi, in CRETELLA Chiara, PIERI, Piero (a cura di), Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia Romagna 1968-2007, vol. 3, Arti, Comunicazione, Controculture, Clueb, Bologna, 2007, pp. 61-75) ed è direttrice artistica della Biennale del Muro Dipinto di Dozza nella cui cornice ha organizzzato un convegno dal titolo Do the right wall/Fai il muro giusto ( Edizioni MAMbo, 2010). Claudio Musso ha scritto un saggio sui rapporti tra Street Art e moda e a pubblicato gli atti di una conferenza sugli sviluppi tecnologici della Urban Art (Liquid Pop. From the Street to Bit, roundtrip in F. Fabbri, F. Muzzarelli, AGATHA RUIZ DE LA PRADA – ELIO FIORUCCI. Arte e moda dalla Pop al Neopop/Art and Fashion from Pop to Neo-Pop, Silvana Editoriale, Milano 2012; Towards an Ephemeral Urban Cinema. Light-Graffiti and Video-Writing at the beginning of the new millenium, AVANCA | CINEMA International Conference Cinema– Art, Technology, Communication, Avanca 2010). C’è una superficialità della critica su questi argomenti che distoglie l’attenzione dal valore reale della ricerca dei singoli artisti e allontana dalla possibilità di una lettura specifica e trasversale delle origini e soprattutto degli sviluppi stilistici. Un esempio positivo che ci teniamo a fare e che sentiamo vicino al nostro approccio è il blog Graffuturism, che valuta il Writing rilevando e sottolineando progressioni o regressioni dello stile.

In Italia nel corso dell’ultimo anno sono partite varie esperienze di autorganizzazione culturale, passate anche dall’occupazione fisica di luoghi, mentre dopo gli scandali di Bondi e Pompei nei palazzi della politica tutto tace sul fronte del settore culturale. Credete ancora nel pubblico?

Claudio. Credo fermamente nell’importanza del pubblico nella cultura, a tutti i livelli: garantisce una maggiore apertura, per quanto il privato di fatto dia la possibilità economica di realizzare un progetto, e siamo grati ai privati che hanno sostenuto Frontier. Indipendentemente dalla parte politica in carica, solo il pubblico avrebbe potuto gestire un progetto di questo genere nel modo migliore, ovvero dando un incarico e lasciando carta bianca sul contenuto artistico. Se il fine ultimo è definire la urban art come “arte”, è necessario che si passi da quell’istituzionalizzazione che solo il pubblico può fornire. Non è un caso che chi ha detto nel 1909 “distruggiamo i musei” [i futuristi], ora stia in un museo….
Fabiola. Vorrei aggiungere che il “pubblico” non è un ente astratto, ma una grande realtà fatta di persone. Quando le persone vengono coinvolte, qualsiasi progetto riesce. In questo Frontier è un grande esempio positivo di come si possa in poco tempo arrivare a una realizzazione su così larga scala. L’istituzione non “autorizza”, ma supporta l’espressione artistica, che solo così può definirsi tale. È uno scenario all’ordine del giorno in altre nazioni europee, ma da noi è ancora poco concepibile: ecco perché l’Italia ha così tanti problemi nel riconoscere l’esistenza di una contemporaneità visiva.

 

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